Articoli di Giovanni Papini

1903


La piccola scienza di un grande demagogo (G. Ferri)
Pubblicato in: Il Regno, anno I, fasc. 1, pp. 5-8
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Data: 29 novembre 1903


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I.

   Fin da giovine Enrico Ferri ha mostrate le più pertinaci intenzioni di farsi grande scienziato. Bisogna riconoscerlo con quell'elegante indulgenza che si può usare senza pericolo per coloro che non riescono. Poiché, lo riconosco senza rimpianti, a poco gli son valsi trent'anni di ricerche, di studi, di sforzi e di tentativi. A poco gli ha giovato l'andar dietro ai maestri, il leggere i libri, lo spogliar le riviste, il raccogliere appunti e soprattutto il pubblicarne. Tutto ciò ch'era possibile l'ha compiuto. Ha cercato perfino di aver delle idee e non potendo averne di sue ha prese con discrezione quelle degli altri: esempio pietoso e comune di delinquenza scientifica. Ma non del tutto gli é mancata la fortuna. Per mettersi in vista s'è gittata addosso la guarnacca di moda, ha gridate e ripetute le frasi ultimo modello, s'è date le arie terribili dell'eterodosso e ha fatti saltellare nei suoi discorsi i più brillanti luoghi comuni delle teorie favorite. In un'età positivista, evoluzionista e democratica egli é stato positivista, evoluzionista e democratico. S'é dato il dolce piacere di camminare coi tempi ed è stato l'uomo del presente anche facendo l'uomo dell'avvenire. E finalmente, possedendo un'anima superficiale, fanciullesca e impulsiva s'é trovato senza sforzo ad esser l'eroe rappresentativo della plebe italiana.
   Così compiacendo la folla della coltura nei suoi amori scientifici e la folla della piazza nei suoi amori politici, é giunto alla fama. Non potendo essere un grande scienziato è divenuto uno scienziato celebre.

II.

   Lasciato a sè stesso, alle sue inclinazioni naturali, Enrico Ferri non farebbe che delle frasi. È il tipo dell'ambizioso che vuol agire colla parola. Ai primi tempi cristiani ne avrebber fatto un apostolo zelante, un rivenditore al minuto, pei borghi romani, delle massime e delle parabole evangeliche — nella Rinascita l'avremmo veduto, colla toga e la burbanza di un umanista, drappeggiar di sonora rettorica ciceroniana le lodi di un tiranno o le faccende di una repubblica.
   Oggi che il Capitale ha cacciato il Vangelo e il Programma minimo è al posto del Credo, il Ferri, pur di parlare e di predicare, s'é fatto democratico, e poiché la plebe accenna a farsi tiranna s'è fatto l'avvocato della plebe. Or che non é più di moda far prediche in chiesa o concioni in corte, il Ferri fa delle prediche in piazza e delle concioni al Parlamento — parlatore sempre, pensatore mai.
   E poiché l'unica professione che convenga a chi vuol far parlar di sé parlando è l'avvocatura, Enrico Ferri fu avvocato. Ma comprese che per aver fortuna occorreva sì provvedesse d'idee nuove e di cause simpatiche e si dette allora alla nuova criminologia e, più tardi, al vecchio socialismo. E siccome, a' nostri giorni, la cosa che impone dì più è la scienza e quella che piace di più è la difesa dei miserabili, Enrico Ferri volle essere scienziato e democratico.
   Ma non potè essere, a suo dispetto, né l'uno né l'altro. Poiché, pur difendendo l'aggregato, la collettività, la massa egli è uno degli esemplari più decisi di perfetto individualista.
   L'amore della fama, degli applausi, delle lodi — le sue affermazioni continue; "io dissi„ "io vidi „, "io scoprii „, che si trovano a ogni passo nei suoi libri; le sue ire mal represse contro gli oppositori o i copiatori; la sua tendenza a primeggiare e dominare tanto nella scuola che nel partito a cui appartiene; i1 suo stesso tenor di vita non del tutto francescano, son tanti aperti segni di questo suo fondamentale carattere. Non é altro che un individualista che fa del collettivismo per essere più comodamente individualista.
   Così, invece che scienziato, é un oratore credente che vuoi far della scienza. Per farne davvero gli mancano le qualità più essenziali e più indispensabili: la potenza di scoprire, l'abitudine del dubbio, lo sguardo che vede al fondo, il senso dell'elemento personale, del carattere provvisorio delle sintesi scientifiche. Egli non ha messo in circolazione un'idea nuova, una sola idea realmente personale; egli s'é genuflesso, colla fede più intera, dinanzi agli assiomi del positivismo inglese e francese; s'é mostrato, in più occasioni, di un semplicismo così disinvolto da sembrare stravagante; ed ha ricevuti, come perpetui, obiettivi, definitivi i cosiddetti «ultimi resultati della scienza positiva.» Non contento d'esser chiacchieratore come un ciarlatano è stato dommatico come un calvinista.

III.

   Il Ferri non é passato, come tanti altri, al positivismo, ma é nato addirittura alla vita intellettuale come positivista.
   S'io avessi voluto fare il suo panegirico avrei potuto cominciare così: «Nell'anno 1870 accaddero in Europa


 
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due grandi avvenimenti, che dovevano avere incalcolabili conseguenze per l'avvenire politico dei popoli civili: la Francia fu sconfitta dalla Germania ed Enrico Ferri, frequentando nella tenera età di quindici anni il liceo di Mantova, divenne positivista sotto la guida di Roberto Ardigò». E chi potrà dimenticare quel grosso occhio di bue che il professore portò un giorno in classe per spiegare la psicologia della visione e che rimase tanto impresso nella memoria del futuro autore dei Nuovi orizzonti del diritto penale? C'è forte motivo di credere che da quel giorno egli abbia preso a veder grosso.
   Ma non soltanto gli occhi più o meno bovini preparavano all'Italia il grande criminologo ed ai lavoratori l'infaticabile e pagabile conferenziere. In quei tempi, in compagnia di Achille Loria e di Giulio Fano, egli imparava che la scienza deve occuparsi solo di fatti, che la causalità naturale è quella che regge tutto e non dice nulla, e che i metafisici sono dei vecchi pericolosi e perdigiorni, terribili corruttori dell'incauta gioventù. In quei tempi egli imparava a conoscere Augusto Comte e Carlo Darwin ed Herbert Spencer e giurava a sé stesso di farsi il campione d'avanguardia del positivismo italiano. E la scuola non gli mancò. Se a Bologna trovò Pietro Ellero, che alla democrazia de' tempi nuovi mescolava pur qualche scoria del vecchio idealismo, incontrò pure il Marescotti che stava rivestendo l'economia politica col figurino positivista, e altrove conobbe il Lombroso, che egli mette ultimo nella triade de' suoi padri spirituali.
   Chiamarsi positivista era a' quei tempi una novità, ma solo il chiamarsi, ché, quanto all'essere, Galileo in Italia, Bacone in Inghilterra e Coliate in Francia già da tempo avean provveduto. Ma il nome bastava a fare effetto in quei tempi e dava un'aria di giovenilità non disdicevole all'adolescente pensatore di S. Benedetto Po.
   E per la parola positivo ha poi sempre serbato il Ferri il più grande amore, nè c'è aggettivo, scommetterei, che sia più ripetuto di quello nelle sue opere. Egli non parla di scienza senza chiamarla positiva, perché pare che ci sia anche una scienza che non sia positiva, che è, a quanto credo, quella che non é ultima o che non va d'accordo con lui. Se vuoi fare una rivista la chiama «Scuola Positiva», se parla di discordie non può fare a meno di chiamarle «positiviste», e le ricerche che narra non possono essere che «positive».
   E dico apposta ch'é affezionato alla parola perché non pare che sia alla cosa. Il positivismo, intendiamoci, non è filosofia difficile ed anzi potrebbe dirsi che non é neppure filosofia. È un metodo comodo che consiste nel mettere in fila dei fatti, e nel mandare in esilio tutte le questioni che si presentano troppo inquietanti e troppo scabrose per l'intelligenze comuni. È il certificato di dedizione della filosofia alla scienza, colla quale la prima si ritira stanca e disillusa e cede il comando alla sua antica serva. È la filosofia industriale, commerciale, che tutti posson fare, con del tempo e della pazienza. È il ritorno al senso comune, dal quale la filosofia idealista ci avea liberati, al fatto esterno, comune, misurabile, che vien considerato come il fatto per eccellenza, l'unico genere di fatti. È il trionfo della volgarità democratica nel pensiero. Una tal filosofia, essendo così poca filosofica, è straordinariamente agevole e, pareva fatta per Ferri, ch'é nemico nato, per impotenza., di ogni speculazione superiore e di ogni attività aristocratica. Nonostante Enrico Ferri non é riuscito neppure ad essere un buon positivista.
   Dimenticando il relativismo radicale ch'é al fondo delle dottrine positive, invece di obliare fin il nome di assoluto egli parla tranquillamente, e più volte di «vero assoluto» dichiarandolo irraggiungibile ma pur esistente (Teor. dell' Imputab. 1878, pp. 9, 10, 11). E invece di dedurre logicamente e inevitabilmente, come tanti positivisti, quali il Lewes, l'Ardigò, il De Roberty dall'inconoscibilità del Noumeno la sua inesistenza, egli continua a parlare di Noumeno (Soc. crímin. 1892- 18923 p. 456) e di «realtà fenomenica» (Soc. e Scienza positica, 1894, p. 94).
   E c'é ancora di peggio dal punto di vista dal metodo. Mentre i positivisti sono, per regola generale, dei nominalisti, i quali ritengono cioè che le idee generali hanno una realtà puramente verbale, e ripongono la reale esistenza nei fatti singolari, tanto che lo Stuart Mill nella sua Logica famosa poteva scrivere: «Le definizioni sono delle definizioni di nomi e soltanto di nomi», il Ferri cade in un singolare eccesso di realismo, che ricorda i più graziosi esempi di Guglielmo di Champeaux e di Duns Scoto. Egli nega semplicemente che l'individuo come tale esista. «L'individuo per sé stante.... non esiste, ma esiste solo in quanto fa parte di una società» (Soc. e Scienza posit., p. 66). Cioè la società, nome collettivo, concetto, idea generale, esiste, ma l'individuo, come individuo, è una leggenda dei maligni nemici del collettivismo positivo. In modo che noi possiamo concepire benissimo una società, anzi la società, ma non ci potremo mai immaginare un uomo solo, che non faccia parte di un gregge organizzato e governato. Ed io che credevo, nella mia ingenuità metafisica, che i primi uomini fossero anteriori alle prime società!
   E almeno fosse una graziosa trovata del Ferri! Ma invece la trovate tal quale, colla stessa bizzarria d'espressioni, nello stesso pontefice del positivismo francese, in Augusto Comte.
   E fin qui si trattava dì affari interni, di tradimenti di metodo che non uscivano fuor della scienza.
   Ma il Ferri ha fatto di più: ha tradito addirittura la scienza, questa figlia adorata di tutto il positivismo più positivo. Infatti cosa vuol provare in fin dei conti il suo libro sui Delinquenti nell'Arte? Nientemeno che questo: che gli artisti del passato avevano già dipinto o scolpito o descritto colla più «positiva» precisione il tipo del delinquente che più tardi la scuola «positiva» italiana doveva illustrare, tormentare e classificare. V'immaginate Dante, Shakespeare, Schiller che hanno il coraggio di precorrere Cesare Lombroso ed Enrico Ferri? Dei poeti, dei sognatori, dei cantafavole, dei cristiani, che non hanno letto nè Spencer nè l'Archivio di Psichiatria e che vi presentano senza complimenti il delinquente nato e il delinquente per passione! Eppure la cosa é sicura, ed Enrico Ferri l'afferma.
   L'arte sola, dice egli, compiva «l'analisi umana del delitto nel delinquente, precorrendo così, massime nella parte psicologica e talvolta colla chiaroveggenza del genio, la fase ultima e nuova della scienza, che in Italia, da non più di venti anni, ha iniziata la descrizione organica e psichica dell'uomo delinquente per le opere di Cesare Lombroso e della scuola criminale positiva» (Delinquenti nell'Arte, 1895, p. 15).
   Un positivista per bene, che avesse l'amor proprio


 
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della scienza, non avrebbe detto questo, sapendo come l'arte sia ancora impregnata di elementi teologici e metafisici, e rappresenti per ogni verso uno stadio inferiore e primitivo dell'attività umana. Infatti il Max Nordau, da positivista più conseguente, nella sua gerarchia dei geniali ha messo senz'altro l'artista al di sotto dello scienziato. Far quasi capire che si vedevan le cose anche avanti l'instaurazione del «metodo positivo» è un vero tradimento alla memoria di Augusto Comte e alle lezioni di Roberto Ardigò.

IV.

   Enrico Ferri non è dunque, e me ne duole per lui, un rigoroso positivista. E lo prova anche il fatto che ha cominciato il suo cammino intellettuale coll'occuparsi di una questione che é essenzialmente filosofica, per non dire metafisica, cioè quella di libertà e determinismo.
   Le seicento pagine di appunti ch'egli mandò fuori nel 1878 sotto il titolo La teorica dell'imputabilità e la negazione del libero arbitrio sono un grosso libro senza riuscire ad essere una grand'opera. Ma ci si vedon citati dei veri e propri filosofi, e Kant, Schopenhauer, Stuart Mill, Hartmann si trovano messi accanto a Herzen, a Darwin e a Lombroso.
   Sul vecchio soggetto il Ferri non riuscì a scrivere un libro innovo. Gli pareva veramente, allora, di scrivere cose terribili e di passare per eretico, ma sapeva, egli stesso che il determinismo da lui sostenuto era concezione comunissima in filosofia, e trascinata pei sistemi da Hobbes a Herzen.
   E scrisse, invece, un libro inutile.
   Poichè una dimostrazione del determinismo morale è la cosa più semplice e più necessaria di questo mondo. Dal momento ché la causalità è uno dei principii fondamentali del pensiero, uno di quelli senza i quali non è quasi possibile pensare, anzi, secondo lo Schopenhauer, l'unico a priori, è naturale che la causalità si ritrovi dappertutto, perché ciò che si supponesse non legato, ciò che non apparisse come una successione di più oggetti, non sarebbe pensabile.
   Il determinismo non é nelle cose ma è nella struttura del pensiero e noi vediamo tutto determinato perché non sappiamo vedere l'isolato. La scienza é determinista per necessità, perché non ha modo migliore per disporre le cose, e tutto quello che si vuol studiare scientificamente, cioè anche l'anima umana, vien visto deterministicamente.
   Ma, così inteso, il determinismo perde quell'aria di profondità e d'importanza che il Ferri, dopo tanti, voleva dargli. Anzi accettando, com'egli fa, l'interpretazione che Hume dà del principio di causa doveva accorgersi che tutto il determinismo non spiega nulla nè dice nulla. Poichè non si tratta che di constatazioni di successioni nel tempo, e vien tolta alla causa ogni idea dì occulta potenzialità produttrice dell'effetto, noi non abbiamo che una semplice descrizione che non esclude a priori le spontaneità individuale di ciascuno oggetto. E per quel che riguarda l'introduzione della causalità nel puro inondo psichico, bisognava dimostrare che c'è nella psiche l'intensità e la spazialità, che son necessarie ai rapporti causali come sono intesi comunemente. Il Bergson, dopo aver tentato di accostarsi più direttamente alla realtà psichica, nega che ciò sia possibile e giunge alla contingenza, ma il Ferri mette il contingentista Boutroux in compagnia degli scolastici. E questo si spiega con facilità. Il Boutroux é un logico e il Ferri è uno dei più deboli ragionatori ch'io m'abbia conosciuto. Accumula le imprecisioni e le contraddizioni con la stessa liberalità colla quale fa collezione di luoghi comuni e di frasi sentimentali.
   A proposito d'Otello, ad esempio, attacca il Graf perchè questi, dice lui, si serve, per spiegarci l'anima del Moro, della psicologia normale la quale è «della superficiale psicologia descrittiva, ma non è della profonda psicologia genetica» (Delinquenti nell'arte, 57). Ora io domando come si potrebbe fare della psicologia anormale senza conoscere e servirsi della normale, della quale la prima è una deviazione e un'appendice, e vorrei sapere come mai soltanto la patologia può assurgere all'onore di esser genetica, e finirei col chiedere se veramente il ricercare la genesi sia qualcosa di non-descrittivo, o non sia piuttosto una descrizione di stati successivi, una descrizione nel tempo.
   Del resto la psicologica non è il forte d'Enrico Ferri. Come la maggior parte dei positivisti i quali proclamano di non far metafisica e poi cadono nella più grossolana metafisica che si possa immaginare, cioè nel materialismo, anche egli crede alla famosa causalità psicofisica e ripete, colla più grande tranquillità di questo mondo, la famigerata frase; «la psicologia è l'effetto della fisiologia e non viceversa» (Soc. e Sc. Posil. 160). Parrebbe, a sentirlo, che la cosa fosse evidente come un assioma di Euclide. Ma ciò gli serve per fare delle amenissime confusioni. Volendo rispondere al Regàlia, che aveva negato l'esistenza dell'emozioni come elementi irriducibili della psiche, il nostro psicologo positivo risponde precisamente così: «Che altro sono le emozioni (equivalente psichico della vita vegetativa, viscerale) ed altro il piacere e dolore, che ne sono soltanto l'indice rivelatore» (Soc. Crim., 413). In altre parole ci sono dei fatti fisiologici i quali danno origine contemporaneamente a due fatti psichici: all'emozione, ch'è l'equivalente, e che non è sentimento, e al piacere e al dolore, che sono l'indice di quelli stessi fatti. Per quanti sforzi si facessero non si potrebbe essere più ridicolmente confusi di così. Soltanto il Ferri riesce ad eguagliare sè stesso e ci riesce quando gli avviene di parlar dell'inconscio.
   L'inconscio è, per definizione, ciò che non si sa, non si conosce, ch'è al disotto o al di fuori del campo della coscienza. Ma il grande scienziato non si spaventa. Egli lascia a Graf e a Bourget le superficiali lungaggini della psicologia descrittiva, e armato di tutto il più profondo positivismo scende a «sorprendere e scoprire quei primi, più intimi e profondi stati dell'animo che germogliando nel buio regno dell'inconscio si affacciano a quella che i psicologi chiamano «soglia della coscienza» (Delinq. nell'Arte, 131). Il Ferri è qui veramente l'uomo delle sorprese: scoprire, cioè conoscere, ciò ch'è per natura sua inconoscibile, e veder germogliare qualche cosa nel buio non son cose di tutte le menti e di tutti gli occhi. Questi positivisti, che non vogliono che chiarezza, sono certe volte di un coraggio speculativo da far temere per tutto il loro positivismo.
   Ma la più bella confusione contraddittoria del Ferri non l'ho ancora riportata; eccola qui in tutta la sua buffonesca ingenuità:
   «È infatti probabilissimo che le emozioni ed i sentimenti,


 
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che sono la parte meno esplorata della fisio-psicologia moderna, dipendano in nodo direttissimo da condizioni dei visceri addominali, finora ignote ma evidenti in moltissimi fatti di esperienza comune.» (Soc. Crim. 73).
   E frasi di tale natura, ove i termini della contraddizione si trovano alla distanza di una linea, son comunissime nel Ferri. Ne citerò due che giovano anche ad illuminare la profondità della sua cultura filosofica. La scienza positiva ha cambiata l'orientazione del pensiero «assorgendo alla sintesi grandiosa del monismo, cioè dell'unica realtà fenomenica, materia e forza inseparabili e indistruttibili.» (Soc. e Sc. posit. 94). Cioè la realtà è una sola ma viceversa è duplice. È vero che le due cose stanno sempre insieme, ma poichè vengon distinte da pensiero non sono identiche, e non ho mai inteso dire che due cose messe accanto diventassero una sola.
   E almeno fosse vero che si trattasse proprio di una scoperta del positivismo! Ascoltate invece il nostro improvvisato filosofo: «la teoria scientifica moderna del monismo, che è l'anima stessa della evoluzione universale e rappresenta l'ultima e definitiva disciplina positiva del pensiero di fronte alla realtà del mondo, dopo il brillante vagabondaggio della metafisica, non fa che ritornare ai concetti dei filosofi greci e di Lucrezio, il grande poeta naturalista» (Soc. e Sc. posit. 99). Una modernità che si accontenta di tornare al I secolo avanti Cristo, e che per essere ultima non fa che un ritorno è una novità ancor più preziosa di quella di apprendere che Lucrezio è un «poeta naturalista».

V.

   Ma è sommamente curioso notare l'atteggiamento del Ferri rispetto alla metafisica. Come ogni altro positivista egli impreca contro la strana aberrazione del «vecchio pensiero metafisico» e rifugge, per motivi d' igiene cerebrale, dalla «nebbia delle astrazioni.» Ma poichè ha bisogno della metafisica come ogni altro mortale egli ricorre a quella degli altri e, pur tenendo come più cara quella men faticosa, cioè la materialista, non disdegna di servirsi di Kant, di Leibniz o di Hegel. Diciamo subito, per non fargli perdere riputazione tra i suoi compagni positivisti, che li conosce da lontano, molto da lontano, più per sentita dire che per altro. Tanto è vero che gli accade qualche volta di scriverne delle belle. Per esempio egli si ostina ad affermare che J. J. Rousseau è il massimo rappresentante dell'individualismo filosofico del secolo XVIII. (Soc. e Sc. posit. 65 e altrove). Ora non solo nei più noti enciclopedisti non si trovano delle affermazioni individualiste, ma bensì delle preoccupazioni soprattutto sociali, ma per farlo apposta il Rousseau nel Contratto sociale ha esposto il sistema politico più oppressivo per l'individuo che si possa immaginare, ove lo stato è il padrone assoluto dei cittadini, ove tutti son gli schiavi di tutti.
   «Le souverain c'est tout le monde, et ce souverain est absolu; voilà l'idée maitresse du Contrat social» ha scritto il Faguet (Dix huitième siécle, 1890, 386).
   E non fa poca meraviglia il veder d'altra parte messo il Leibniz assieme ai deterministi assoluti (Teor. dell'Imput. 2). Sta bene che il filosofo di Leipzig ha fatte delle restrizioni alla libertà morale e l'ha sottomessa a certe condizioni che ne diminuiscono l'assolutezza ma mon bisogna dimenticare che nell'opera sua più importante, nella Monadologia, egli ha rappresentate le monadi come atomi spirituali completamente liberi e indipendenti, sui quali nessuna cosa può agire, e che ha fatto dell'anima umana nient'altro che una grande monade. Il metterlo insieme a Spinoza e a Moleschott è veramente un po' troppo.
   Lo stesso è a dirsi del Voltaire che più volte ha ripetuta la necessità della credenza alla libertà, e del Kant il quale afferma, si che i nostri atti son determinati, ma in quanto son fenomeni, mentre sono indeterminati in guarito hanno origine dal carattere intelligibile, ch'è al di fuori dello spazio e del tempo.
   Ma il Ferri non è obbligato a perdersi in tali sottigliezze. Ha ben altro da fare. Bisogna che parli, che urli, che strepiti, che predichi e che scriva. Non ha tempo per pensare. Ferri è un avvocato che vuol guadagnare e un politico che vuoi far del chiasso. Non può essere un sapiente che indaghi con profonda passione e che possa riflettere su quello che dice.
   Cosi egli è il pensatore meno pensante che sia dato incontrare.
   È uno scienziato che ha tanta ammirazione per la scienza che si dimentica di farne. Egli l'arringatore, il patrocinatore, il raccomandatore, il parlatore: non si può chiedere di far della scienza o della filosofia. Egli n'ha voluta fare ed ha studiato i criminali e ha difeso il socialismo. Vedremo una prossima volta come ci sia riuscito.
   Per ora son contento d'aver visto ch'è un positivista per ridere, un logico tentennante, uno psicologo stupefacente, un metafisico senza saperlo e uno storico senza erudizione. Dopo tutto questo, naturalmente, la nostra buona Italia, analfabeta e parolaia, seguiterà a proclamare con dolce orgoglio che il suo figlio Enrico Ferri è tra più grandi scienziati del mondo.

(1) Questo non è che il primo saggio di una demolizione, scientifica di E. Ferri il quale gode, per vergogna d'Italia, dì una fama troppo più grande del suo valore. Saranno saggi brevi, non per scarsità dí materia ma di spazio, e avranno per scopo di preludere, all'atterramento finale di quel demagogo ch'è riuscito, per nostra viltà, ad imporsi al paese.


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